Giornata mondiale della poesia: le nostre scelte

Oggi, 21 marzo, è la Giornata mondiale della poesia. Noi di #alpassocoitempi abbiamo incontrato serie difficoltà a fare una scelta di poeti e poesie da omaggiare in questa giornata. Come si fa a scegliere la poesia? Eppure, a un certo punto, ci siamo dovute fermare. Abbiamo così deciso di affidarci al nostro gusto, tenendo però fermi due punti: il ricordo del sommo vate, nel settecentenario della sua morte, e di Alda Merini, nata nel primo giorno di primavera, e che oggi avrebbe compiuto novant’anni.

In questa lunga selezione non seguiamo un vero e proprio ordine cronologico, abbiamo incluso anche due poetesse premio Nobel, riferimenti alla poesia contemporanea e un omaggio a un’amica poetessa scomparsa da poco.

Il nostro augurio è che gli editori abbiano più coraggio di investire nella pubblicazione di raccolte poetiche. Ne abbiamo bisogno tutti. La poesia nutre l’animo e cura come un balsamo. Buona lettura (o rilettura)

di Valeria Cudini e Francesca Ratti

Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io” di Dante Alighieri

Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io
fossimo presi per incantamento
e messi in un vasel, ch’ad ogni vento
per mare andasse al voler vostro e mio;

sì che fortuna od altro tempo rio
non ci potesse dare impedimento,
anzi, vivendo sempre in un talento,
di stare insieme crescesse ’l disio.

E monna Vanna e monna Lagia poi
con quella ch’è sul numer de le trenta
con noi ponesse il buono incantatore:

e quivi ragionar sempre d’amore,
e ciascuna di lor fosse contenta,
sì come i’ credo che saremmo noi.

Sono nata il ventuno a primavera” di Alda Merini

Sono nata il ventuno a primavera
ma non sapevo che nascere folle,
aprire le zolle
potesse scatenar tempesta.
Così Proserpina lieve
vede piovere sulle erbe,
sui grossi frumenti gentili
e piange sempre la sera.
Forse è la sua preghiera.

Canto notturno di un pastore errante dell’Asia” di Giacomo Leopardi

Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,
silenziosa luna?
Sorgi la sera, e vai,
contemplando i deserti; indi ti posi.
Ancor non sei tu paga
di riandare i sempiterni calli?
Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
di mirar queste valli?
Somiglia alla tua vita
la vita del pastore.
Sorge in sul primo albore;
move la greggia oltre pel campo, e vede
greggi, fontane ed erbe;
poi stanco si riposa in su la sera:
Altro mai non ispera.
Dimmi, o luna: a che vale
al pastor la sua vita,
la vostra vita a voi? dimmi: ove tende
questo vagar mio breve,
il tuo corso immortale?

Vecchierel bianco, infermo,
mezzo vestito e scalzo,
con gravissimo fascio in su le spalle,
Per montagna e per valle,
Per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,
al vento, alla tempesta, e quando avvampa
l’ora, e quando poi gela,
corre via, corre, anela,
varca torrenti e stagni,
cade, risorge, e più e più s’affretta,
Senza posa o ristoro,
lacero, sanguinoso; infin ch’arriva
colà dove la via
e dove il tanto affaticar fu volto:
abisso orrido, immenso,
ov’ei precipitando, il tutto obblia.
Vergine luna, tale
è la vita mortale.

Nasce l’uomo a fatica,
ed è rischio di morte il nascimento.
Prova pena e tormento
per prima cosa; e in sul principio stesso
la madre e il genitore
il prende a consolar dell’esser nato.
Poi che crescendo viene,
l’uno e l’altro il sostiene, e via pur sempre
con atti e con parole
studiasi fargli core,
e consolarlo dell’umano stato:
altro ufficio più grato
non si fa da parenti alla lor prole.
Ma perché dare al sole,
perché reggere in vita
chi poi di quella consolar convenga?
Se la vita è sventura,
perché da noi si dura?
Intatta luna, tale
è lo stato mortale.
Ma tu mortal non sei,
e forse del mio dir poco ti cale.

Pur tu, solinga, eterna peregrina,
che sì pensosa sei, tu forse intendi,
questo viver terreno,
il patir nostro, il sospirar, che sia;
che sia questo morir, questo supremo
scolorar del sembiante,
e perir dalla terra, e venir meno
ad ogni usata, amante compagnia.
E tu certo comprendi
il perché delle cose, e vedi il frutto
del mattin, della sera,
del tacito, infinito andar del tempo.
Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore
rida la primavera,
a chi giovi l’ardore, e che procacci
il verno co’ suoi ghiacci.
Mille cose sai tu, mille discopri,
che son celate al semplice pastore.
Spesso quand’io ti miro
star così muta in sul deserto piano,
che, in suo giro lontano, al ciel confina;
ovver con la mia greggia
seguirmi viaggiando a mano a mano;
e quando miro in cielo arder le stelle;
dico fra me pensando:
a che tante facelle?
Che fa l’aria infinita, e quel profondo
infinito seren? che vuol dir questa
solitudine immensa? ed io che sono?
Così meco ragiono e della stanza
smisurata e superba,
e dell’innumerabile famiglia;
Poi di tanto adoprar, di tanti moti
d’ogni celeste, ogni terrena cosa,
girando senza posa,
per tornar sempre là donde son mosse;
uso alcuno, alcun frutto
indovinar non so. Ma tu per certo,
giovinetta immortal, conosci il tutto.
Questo io conosco e sento,
che degli eterni giri,
che dell’esser mio frale,
qualche bene o contento
avrà fors’altri; a me la vita è male.

O greggia mia che posi, oh te beata,
che la miseria tua, credo, non sai!
Quanta invidia ti porto!
non sol perché d’affanno
quasi libera vai;
ch’ogni stento, ogni danno,
ogni estremo timor subito scordi;
Ma più perché giammai tedio non provi.
Quando tu siedi all’ombra, sovra l’erbe,
tu se’ queta e contenta;
e gran parte dell’anno
senza noia consumi in quello stato.
ed io pur seggo sovra l’erbe, all’ombra,
e un fastidio m’ingombra
la mente, ed uno spron quasi mi punge
sì che, sedendo, più che mai son lunge
da trovar pace o loco.
E pur nulla non bramo,
e non ho fino a qui cagion di pianto.
Quel che tu goda o quanto,
non so già dir; ma fortunata sei.
Ed io godo ancor poco,
o greggia mia, né di ciò sol mi lagno.
Se tu parlar sapessi, io chiederei:
dimmi: perché giacendo
a bell’agio, ozioso,
s’appaga ogni animale;
me, s’io giaccio in riposo, il tedio assale?

Forse s’avess’io l’ale
sa volar su le nubi,
e noverar le stelle ad una ad una,
o come il tuono errar di giogo in giogo ,
più felice sarei, dolce mia greggia,
più felice sarei, candida luna.
O forse erra dal vero,
mirando all’altrui sorte, il mio pensiero:
Forse in qual forma, in quale
stato che sia, dentro covile o cuna,
è funesto a chi nasce il dì natale.

“Prato” di Giuseppe Ungaretti

La terra
s’è velata
di tenera
leggerezza
Come una sposa
novella
offre
allibita
alla sua creatura
il pudore
sorridente
di madre

“La signorina Felicita” di Guido Gozzano

I
Signorina Felicita, a quest’ora
scende la sera nel giardino antico
della tua casa. Nel mio cuore amico
scende il ricordo. E ti rivedo ancora,
e Ivrea rivedo e la cerulea Dora
e quel dolce paese che non dico.

Signorina Felicita, è il tuo giorno!
A quest’ora che fai? Tosti il caffè,
e il buon aroma si diffonde intorno?
O cuci i lini e canti e pensi a me,
all’avvocato che non fa ritorno?
E l’avvocato è qui: che pensa a te.
[…]

III
Sei quasi brutta, priva di lusinga
nelle tue vesti quasi campagnole,
ma la tua faccia buona e casalinga,
ma i bei capelli di color di sole,
attorti in minutissime trecciuole,
ti fanno un tipo di beltà fiamminga…

E rivedo la tua bocca vermiglia
così larga nel ridere e nel bere,
e il volto squadro, senza sopracciglia,
tutto sparso d’efelidi leggiere
e gli occhi fermi, l’iridi sincere
azzurre d’un azzurro di stoviglia…

Tu m’hai amato. Nei begli occhi fermi
rideva una blandizie femminina.
Tu civettavi con sottili schermi,
tu volevi piacermi, Signorina:
e più d’ogni conquista cittadina
mi lusingò quel tuo voler piacermi!

Ogni giorno salivo alla tua volta
pel soleggiato ripido sentiero.
Il farmacista non pensò davvero
un’amicizia così bene accolta
quando ti presentò la prima volta
l’ignoto villeggiante forestiero.

Talora – già la mensa era imbandita –
mi trattenevi a cena. Era una cena
d’altri tempi, col gatto e la falena
e la stoviglia semplice e fiorita
e il commento dei cibi e Maddalena
decrepita, e la siesta e la partita…

Per la partita, verso ventun’ore
giungeva tutto l’inclito collegio
politico locale: il molto Regio
Notaio, il signor Sindaco, il Dottore;
ma – poiché trasognato giocatore–
quei signori m’avevano in dispregio…

M’era più dolce starmene in cucina
tra le stoviglie a vividi colori:
tu tacevi, tacevo Signorina:
godevo quel silenzio e quegli odori
tanto tanto per me consolatori,
di basilico d’aglio di cedrina…

Maddalena con sordo brontolio
disponeva gli arredi ben detersi,
rigovernava lentamente ed io,
già smarrito nei sogni più diversi,
accordavo le sillabe dei versi
sul ritmo eguale dell’acciotolio.

Sotto l’immensa cappa del camino
(in me rivive l’anima d’un cuoco
forse…) godevo il sibilo del fuoco;
la canzone d’un grillo canterino
mi diceva parole, a poco a poco,
e vedevo Pinocchio e il mio destino…

Vedevo questa vita che m’avanza:
chiudevo gli occhi nei presagi grevi;
aprivo gli occhi: tu mi sorridevi,
ed ecco rifioriva la speranza!
Giungevano le risa, i motti brevi
dei giocatori, da quell’altra stanza.
[…]

VI
Tu m’hai amato. Nei begli occhi fermi
luceva una blandizie femminina;
tu civettavi con sottili schermi,
tu volevi piacermi, Signorina;
e più d’ogni conquista cittadina
mi lusingò quel tuo voler piacermi!

Unire la mia sorte alla tua sorte
per sempre, nella casa centenaria!
Ah! Con te, forse, piccola consorte
vivace, trasparente come l’aria,
rinnegherei la fede letteraria
che fa la vita simile alla morte…

Oh! Questa vita sterile, di sogno!
Meglio la vita ruvida concreta
del buon mercante inteso alla moneta,
meglio andare sferzati dal bisogno,
ma vivere di vita! Io mi vergogno
sì, mi vergogno di essere poeta!

Tu non fai versi. Tagli le camicie
per tuo padre. Hai fatto la seconda
classe, t’han detto che la terra è tonda,
ma tu non credi… E non mediti Nietzsche…
Mi piaci. Mi faresti più felice
d’un’intellettuale gemebonda…

Tu ignori questo male che s’apprende
in noi29. Tu vivi i tuoi giorni modesti,
tutta beata nelle tue faccende.
Mi piaci. Penso che leggendo questi
miei versi tuoi, non mi comprenderesti,
ed a me piace chi non mi comprende.

Ed io non voglio più essere io!
Non più l’esteta gelido, il sofista,
ma vivere nel tuo borgo natio,
ma vivere alla piccola conquista
mercanteggiando placido, in oblio
come tuo padre, come il farmacista…

Ed io non voglio più essere io!

VII
Il farmacista nella farmacia
m’elogiava un farmaco sagace:
«Vedrà che dorme tutte le sue notti in pace:
un sonnifero d’oro, in fede mia!»
Narrava, intanto, certa gelosia,
con non so che loquacità mordace.

«Ma c’è il notaio pazzo dell’oca!
Ah! Quel notaio, creda: un capo ameno!
La signorina è brutta, senza seno,
volgaruccia, Lei sa, come una cuoca…
E la dote… la dote è poca, poca:
diecimila, chi sa, forse nemmeno…»

«Ma dunque?» – «C’è il notaio furibondo
con Lei, con me che volli presentarla
a Lei; non mi saluta, non mi parla…» –
«È geloso?» – «Geloso! Un finimondo!…»
«Pettegolezzi!…» – «Ma non Le nascondo
che temo, temo qualche brutta ciarla…»

«Non tema! Parto.» – «Parte? E va lontana?»
«Molto lontano… Vede, cade a mezzo
ogni motivo di pettegolezzo…»
«Davvero parte? Quando?» – «In settimana…»
Ed uscii dall’odor d’ipecacuana
nel plenilunio settembrino, al rezzo.

Andai vagando nel silenzio amico,
triste perduto come un mendicante.
Mezzanotte scoccò, lenta, rombante
su quel paese che non dico.
La Luna sopra il campanile antico
pareva «un punto sopra un I gigante».

In molti mesti e pochi sogni lieti,
solo pellegrinai col mio rimpianto
fra le siepi, le vigne, i castagneti
quasi d’argento fatti nell’incanto;
e al cancello sostai del camposanto
come s’usa nei libri dei poeti.

Voi che posate già sull’altra riva,
immuni dalla gioia, dallo strazio,
parlate, o morti, al pellegrino sazio!
Giova guarire? Giova che si viva?
O meglio giova l’Ospite furtiva
che ci affranca dal Tempo e dallo Spazio?

A lungo meditai, senza ritrarre
le tempia dalle sbarre. Quasi a scherno
s’udiva il grido delle strigi alterno.
La Luna, prigioniera, fra le sbarre,
imitava con sue luci bizzarre
gli amanti che si baciano in eterno.

Bacio lunare, fra le nubi chiare
come di moda settant’anni fa!
Ecco la Morte e la Felicità!
L’una m’incalza quando l’altra appare;
quella m’esilia in terra d’oltremare,
questa promette il bene che sarà…

VIII
Nel mestissimo giorno degli addii
mi piacque rivedere la tua villa.
La morte dell’estate era tranquilla
in quel mattino chiaro che salii
tra i vigneti già spogli, tra i pendii
già trapunti di bei colchici lilla.

Forse vedendo il bel fiore malvagio
che i fiori uccide e semina le brume,
le rondini addestravano le piume
al primo volo, timido, randagio;
e a me randagio parve buon presagio
accompagnarmi loro nel costume.

«Viaggio con le rondini stamane…»
«Dove andrà?» – «Dove andrò? Non so… Viaggio,
viaggio per fuggire altro viaggio…
oltre Marocco, ad isolette strane,
ricche in essenze, in datteri, in banane,
perdute nell’Atlantico selvaggio…

Signorina, s’io torni d’oltremare,
non sarà d’altri già? Sono sicuro
di ritrovarla ancora? Questo puro
amore nostro salirà l’altare?»
E vidi la tua bocca sillabare
a poco a poco le sillabe: giuro.

Giurasti e disegnasti una ghirlanda
sul muro, di viole e di saette,
coi nomi e con la data memoranda:
trenta settembre novecentosette…
Io non sorrisi. L’animo godette
quel romantico gesto d’educanda.

Le rondini garrivano assordanti,
garrivano garrivano parole
d’addio, guizzando ratte come spole,
incitando le piccole migranti…
Tu seguivi gli stormi lontananti
ad uno ad uno per le vie del sole…

«Un altro stormo s’alza!…» – «Ecco s’avvia!»
«Sono partite…» – «E non le salutò!…»
«Lei devo salutare, quelle no:
quelle terranno la mia stessa via
in un palmeto della Barberia
tra pochi giorni le ritroverò…»

Giunse il distacco, amaro senza fine,
e fu il distacco d’altri tempi, quando
le amate in bande lisce e in crinoline,
protese da un giardino venerando,
singhiozzavano forte, salutando
diligenze che andavano al confine…

M’apparisti così come in un cantico
del Prati, lacrimante l’abbandono
per l’isole perdute nell’Atlantico;
ed io fui l’uomo d’altri tempi, un buono
sentimentale giovine romantico…

Quello che fingo d’essere e non sono!

“L’ora presente” di Yves Bonnefoy

Quelle mani che si avvinghiavano a lei di notte,
Le sentiva innumerevoli, non cercava
Di dar loro un volto. Le occorreva
Non sapere, desiderando non essere.

Anima e corpo, per stringere le vostre dita, unire le vostre labbra
Davvero occorre l’approvazione degli occhi?
Pensano i nostri occhi, che il linguaggio obbliga
A sventare senza posa troppi inganni!

Psiche aveva amato che il non vedere
Fosse come il fuoco quando avvolge
L’albero di qui degli altri mondi della folgore.

Eros, lui desiderava tenere tutto quel volto
Tra le mani, non l’abbandonava
Che con vivo rammarico ai capricci del giorno.

Se tardi a trovarmi insisti” di Walt Whitman

Se tardi a trovarmi, insisti.
Se non ci sono in nessun posto,
cerca in un altro, perché io sono
seduto da qualche parte,
ad aspettare te…
e se non mi trovi più, in fondo ai tuoi occhi,
allora vuol dire che sono dentro di te.

“Serenate” di Seamus Heaney

L’usignolo irlandese
è il forapaglie,
un uccellino dalla voce forte
che fa un gran chiasso tutta la notte.

Non ciò che ti aspetteresti
dalla nazione musicale.
Non l’ho neanche mai sentito —
e un gufo nemmeno, se è per quello.

Le mie serenate sono state
la voce spezzata di un corvo
in un vento leggero o in un sogno,
il sibilo dei pipistrelli

o la mitragliata
del re di quaglie vagabondo
perso in una terra di nessuno
fra trebbiatrici e sostanze chimiche.

Perciò riempi i biberon, amore,
lasciali dentro le loro culle,
e se ci svegliano, be’,
farebbe altrettanto il forasiepi.

“Bevvi un sorso di vita” di Emily Dickinson

Bevvi un sorso di vita.

Vi dirò quanto lo pagai:

Precisamente un’esistenza.

il prezzo di mercato, dicevano.

Mi pesarono, granello per granello

bilanciarono fibra con fibra.

Poi mi porsero il valore del mio essere:

Un solo grammo di cielo.

“Ubriacatevi” di Charles Baudelaire

Bisogna essere sempre ubriachi.
Tutto sta in questo: è l’unico problema.
Per non sentire l’orribile fardello del tempo.
Del tempo che rompe le vostre spalle
e vi inclina verso la terra,
bisogna che vi ubriachiate senza tregua.
Ma di che? Di vino, di poesia o di virtù,
a piacer vostro. Ma ubriacatevi.
E se qualche volta sui gradini di un palazzo,
sull’erba verde di un fossato,
nella mesta solitudine della vostra camera,
vi risvegliate con l’ubriachezza già diminuita o scomparsa,
domandate al vento, all’onda, alla stella, all’uccello, all’orologio,
a tutto ciò che fugge, a tutto ciò che geme,
a tutto ciò che ruota, a tutto ciò che canta,
a tutto ciò che parla, domandate che ora è;
ed il vento, l’onda, la stella, l’uccello, l’orologio vi risponderanno
“È l’ora di ubriacarsi!
Per non essere gli schiavi martirizzati del tempo, ubriacatevi;
Ubriacatevi senza smettere!
Di vino, di poesia o di virtù, a piacer vostro

“La mia bohème” (fantasia) di Arthur Rimbaud

 Me ne andavo, i pugni nelle tasche sfondate;
anche il mio cappotto diventava ideale;
andavo sotto il cielo, Musa!, ed ero il tuo leale;
oh! quanti amori assurdi ho strasognato!

Nei miei unici calzoni avevo un largo squarcio.
– Pollicino sognatore, in corsa sgranavo
rime. Il mio castello era l’Orsa Maggiore.
– Le mie stelle in cielo facevano un dolce fru-fru.

Le ascoltavo, seduto sul ciglio delle strade,
nelle calme sere di settembre in cui sentivo
sulla fronte le gocce di rugiada, come un vino vigoroso;

in cui, rimando in mezzo a quelle ombre fantastiche,
come fossero lire, tiravo gli elastici
delle mie scarpe ferite, un piede vicino al cuore!

“A tears go by Ophelia!” di  Roberto Mussapi

A Marianne Faithfull

Poi furono sillabe quelle che erano state parole
e versi che mi straziavano la gola,
pezzi, grumi di vocesangue
di ogni immagine che un tempo era stata,
ora persa nel fondo sotto la vetrata.
E introvabile come chi è muto
di colpo e con la voce il suo sguardo è perduto
per un dolore che puoi solo intuire
in quella cornea all’improvviso vuota,
o come di colpo ai centosessanta in galleria
col piede in ipnosi sull’acceleratore
e io, io lingua franta, io affogata.

Ho recitato Ofelia, conosco la pazzia,
e so che ti colpisce per eccesso d’amore,
quando i tuoi occhi non reggono una sedia
se vedi nella paglia trame d’oro,
e l’aura di quello scranno e la sua luce,
e i beati che si posarono in inconscia preghiera,
se tremi per una persona che si siede
e si avvicina al centro del fango e dei grandi fiumi,
e so cosa significa eccesso d’amore,
quando colui che ami dilegua e tace,
o non riesce a risponderti, e tu muori,
per estinzione, disidratata in pietra.
Io sono affogata nello stagno e risalita
tra foglie cadute in morte e semprevive
dal fondo melmoso risalenti alla luce,
dal fondo ho ritrovato genesi e amore,
ora che torna mia, in me, la mia voce,
niente da chiedere, risalire adagio
come la linfa dal calamo al fiore
dopo che fu strozzata dall’inverno e dal gelo
tra foglie marcite, e il rito umorale
ascende ai campi e all’oro dei covoni
tra casa e casa, tra le luci ed le strade.
Conosco la pazzia e sono affogata,
e adesso so che era soltanto amore.

Ti perdi nelle strade” di Valeria Cudini

Ti perdi nelle strade, a sera,

imbrattato della tua polvere,

della speranza che ti ha sfiorato

senza raggiungerti,

del ricordo che si raggruma

e diventa silenzio.

Il fantasma grigio di te stesso

il primo che incontri.

Lo attraversi

il suo sguardo è dorato.

Forse ti ha tolto di dosso

qualcuno dei grani.

14. Da “Laborintus” di Edoardo Sanguineti


Con le quattro tonsille in fermentazione con le trombe con i cadaveri
con le sinagoghe devo sostituirti con le stazioni termali con i logaritmi
con i circhi equestri
con dieci monosillabi che esprimano dolore
con dieci numeri brevi che esprimano perturbazioni
mettere la polvere
nei tuoi denti le pastiglie nei tuoi tappeti aprire le mie sorgenti
dentro il tuo antichissimo atlante
i tuoi fiori sospenderò finalmente
ai testicoli dei cimiteri ai divani del tuo ingegno
intestinale
devo con opportunità i tuoi almanacchi dal mio argento escludere
i tuoi tamburi dalle mie vesciche
il tuo arcipelago dai miei giornali
pitagorici
piangere la pietra e la pietra e la pietra
la pietra ininterrottamente con il ghetto delle immaginazioni
in supplicazioni sognate di pietra
ma pietra che non porta distrazione
esplorare i colori della tua lingua come morti vermi mistici
di lacrime di pietra
ma pietra irrimediabilmente morale

.

il tuo filamento patetico rifiuta le scodelle truccate
i corpi ulcerati così vicini al disfacimento
con la lima ispida
devo trattare i tuoi alberi del pane
devo mangiare il fuoco e la teosofia
trattare anche l’ospedale psichiatrico dei tuoi deserti rocciosi
oh più tollerante di qualche foresta
più nervale di qualsiasi nervo e pertanto scopertamente fibrosa
tratto la tua recisione e quando batte le immagini il tuo sputo spasmodico
oh esultanza per gli aghi sub specie mortis
e adesso
il nonparlare il nonpensare il nonpiangere
disperatamente parlano pensano piangono durante il ventre della torpedine
in ipso nudo amore carnali
in ipso animae et corporis matrimonio
per quale causa vomitano le tuniche intima anima e bastonano l’estate
e con la coda stimolano il sale e la pioggia?

Scoiattolo” di Tiziano Rossi

Tu mansueto destino, camminante fortuna,
stelo piegato nelle guerre e raddrizzato,
inciampo che non cascava, sorriso che mai
non naufragava,
aiutami, papà.
Tu basco, pipetta e via andare
contento del colore di una pera,
tu e le tue tinte così azzurre sulla malta,
fatto di carezze discrete sulla malta, di malta,
di cavernose locande, e canoniche in quel gelo,
di sandali svelti e pulitezza,
pittore scoiattolo, lontano, impicciolito,
spoglia passione senza cruccio,
nonnulla che intorno aleggiava.

Adesso perlustro il terreno, la più scarna
tua Lombardia,
a cercare i granelli di riso che a cento
piano piano hai lasciato cadere,
tu Pollicino, e senza neanche sapere:
mio arrovellato inseguimento.

Egli desidera il tessuto del cielo” di W.B. Yeats

Se avessi il drappo ricamato del cielo,

Intessuto dell’oro e dell’ argento e della luce,

I drappi dai colori chiari e scuri del giorno e della notte,

Dai mezzi colori dell’alba e del tramonto,

Stenderei quei drappi sotto i tuoi piedi,

Invece, essendo povero, ho soltanto sogni;

E i miei sogni ho steso sotto i tuoi piedi,

Cammina leggera, perché cammini sui miei sogni.



“Blues in memoria” di W.H. Auden

Fermate tutti gli orologi, isolate il telefono,
fate tacere il cane con un osso succulento,
chiudete i pianoforte, e tra un rullio smorzato
portate fuori il feretro, si accostino i dolenti.

Incrocino aeroplani lamentosi lassù
e scrivano sul cielo il messaggio Lui È Morto,
allacciate nastri di crespo al collo bianco dei piccioni,
i vigili si mettano guanti di tela nera.

Lui era il mio Nord, il mio Sud, il mio Est ed Ovest,
la mia settimana di lavoro e il mio riposo la domenica,
il mio mezzodì, la mezzanotte, la mia lingua, il mio canto;
pensavo che l’amore fosse eterno: e avevo torto.

Non servon più le stelle: spegnetele anche tutte;
imballate la luna, smontate pure il sole;
svuotatemi l’oceano e sradicate il bosco;
perché ormai più nulla può giovare.

“Canzone d’amore di una ragazza folle” di Sylvia Plath

Io chiudo gli occhi e tutto il mondo muore;
Schiudo le palpebre e tutto rinasce.
(Sono convinta di averti inventato.)

Le stelle escon danzando in blu e rosso,
Oscurità arbitraria entra al galoppo:
Io chiudo gli occhi e tutto il mondo muore.

Sognai che mi stregavi nel mio letto
M’incantavi e baciavi alla follia.
(Sono convinta di averti inventato.)

Giù Dio dal cielo, spenti i fuochi inferni,
Fuori Serafini e schiere di Satana:
Io chiudo gli occhi e tutto il mondo muore.

Speravo che tornassi, l’hai promesso,
Ma ora invecchio e dimentico il tuo nome.
(Sono convinta di averti inventato.)

Dovevo amare un uccello del tuono:
Quelli tornan ruggendo a primavera.
Io chiudo gli occhi e tutto il mondo muore.

 (Sono convinta di averti inventato)

“Disattenzione”  di Wislawa Szymborska

Ieri mi sono comportata male nel cosmo.
Ho passato tutto il giorno senza fare
domande,

senza stupirmi di niente.

Ho svolto attività quotidiane,
come se ciò fosse tutto il dovuto.

Inspirazione, espirazione, un passo dopo
l’altro, incombenze,
ma senza un pensiero che andasse più in là
dell’uscire di casa e del tornarmene a casa.

Il mondo avrebbe potuto essere preso per
un mondo folle,
e io l’ho preso solo per uso ordinario.

Nessun come e perché –
e da dove è saltato fuori uno così –
e a che gli servono tanti dettagli in movimento.

Ero come un chiodo piantato troppo in
superficie nel muro
(e qui un paragone che mi è mancato).

Uno dopo l’altro avvenivano cambiamenti
perfino nell’ambito ristretto d’un batter
d’occhio.

Su un tavolo più giovane da una mano d’un
giorno più giovane
il pane di ieri era tagliato diversamente.

Le nuvole erano come non mai e la pioggia
era come non mai,
poiché dopotutto cadeva con gocce diverse.

La terra girava intorno al proprio asse,
ma già in uno spazio lasciato per sempre.

È durato 24 ore buone.
1440 minuti di occasioni.
86.400 secondi in visione.

Il savoir-vivre cosmico,
benché taccia sul nostro conto,
tuttavia esige qualcosa da noi:
un po’ di attenzione, qualche frase di Pascal
e una partecipazione stupita a questo gioco
con regole ignote.

“Tramonto” di  Louise Gluck

(Premio Nobel per la Letteratura 2020)

La mia grande felicità
è il suono che fa la tua voce
chiamandomi anche nella disperazione; il mio dolore
che non posso risponderti
in parole che accetti come mie.

Non hai fede nella tua stessa lingua.
Così deleghi
autorità a segni
che non puoi leggere con alcuna precisione.

Eppure la tua voce mi raggiunge sempre.
E io rispondo costantemente,
la mia collera passa
come passa l’inverno. La mia tenerezza
dovrebbe esserti chiara
nella brezza della sera d’estate
e nelle parole che diventano
la tua stessa risposta.

Una selezione di poesie sulla poesia di Anna Martinenghi

La poesia non si vende


La poesia
non si vende,
ultimo baluardo
nel cuore dell´uomo
senza cartellino
del prezzo


Finché
non servirà
la carta di credito
per guardare un tramonto
asciugare lacrime
abbracciare un bambino
la poesia avrà
valore
e
l´uomo dignità

Resta il poeta
il più povero
fra gli uomini
a cercare pepite
fra i sassi
ad anima nuda


Perché
la poesia
non è di chi la scrive.
la poesia
è di chi gli serve*.


*Massimo Troisi da “IL POSTINO”

Null’altro occorre

Si prenda una poesia

un verso solo

una freccia ricevuta in pieno petto

una bomba di parole esplose dentro

Non ci s’interessi al poeta

non importa se famoso

o sconosciuto imperfetto

non importa se Vate

se imbratta muri

o recita ai microfoni

il suo meglio

è già in quelle righe

e ci è sparito dentro

Si prenda dunque quel verso

e lo si indossi sull’anima

è già della misura giusta

perché vi ha scelti

perché l’avete scelto

Lo si tenga stretto

lo si mediti in silenzio

lo si rilegga spesso

lo si ripeta a memoria

lo si urli al vento

diventi convinzione

scudo

gesto

di nuovo

freccia/bomba/energia

Si prenda una poesia

un verso soltanto

lo si faccia diventare vita

A null’altro occorre

“Fate conto di essere matti”

Lasciate una poesia sospesa

un avanzo d’anima

 una gioia involontaria

una cosa piccola

ben fatta

Fate conto di essere matti

sbattete contro gli arcobaleni

date valore ai giochi nei cortili

alla gentilezza che non finisce sui giornali

adeguarsi al male

al brutto

all’iniquità

è associazione a delinquere

Rompete i coglioni al mondo

nei giorni bui

 esigete la luce come diritto

e quando siete nel sole

non dimenticate

che serve a fare le ombre

“Strategia dell’addio” di Elena Mearini

Eppure,
anche questa è opera buona.
Accompagnare con gli occhi
una foglia che cade
per non lasciarla
sola a morire.

Non c’è più la linea
che da me portava a te,
e da te tornava a me.
Lei è caduta per assenza di campo,
e noi ci siamo interrotti
per mancanza di senso.

Aspetta, lasciami guardare
ci sarà un posto
mai occupato dalla mancanza,
forse il bracciolo della poltrona scucita,
lo schienale del divano macchiato,
oppure il cuscino insonne di questo letto
sfatto più per noia che per sonno
sì, appoggiati qui
dove nessun abbandono
finora ha sognato.

E l’attesa del sabato per tutti” di Patrizia Napoleone (un omaggio a un’amica scomparsa da poco)

Il calore di un vello ricciuto

e l’odore del maschio nella stalla

la luce fioca nella notte

il sapore di una stanchezza smessa da poco

e i ricordi teneri come nascite.

Non hai acceso la lampada a schiarire

i segni sul mio viso

a frugare lucciole gialle fra i capelli.

Il buio lungo di attese

che ha voce di lupi dispersi

ingoiò i gesti i segni le parole

e la grandine che ferisce le uve

e i papaveri sudati sullo stelo

e le ortiche che puniscono gli amori

questo risalire la china

e la fermata per l’aperitivo

il gusto della cena quando è in tavola

e i morti del telegiornale.

Il silenzio lento e paziente

a schiacciare le voglie

masticò quel mio ricucire

le cause e i perché

i motivi per cui e i vale la pena

e l’attesa del sabato per tutti.

Post Author: Valeria Cudini

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