Recensione del libro “V13 – Cronaca giudiziaria” di Emmanuel Carrère

In questo momento storico caratterizzato da gravi tensioni internazionali, e in particolare dalla guerra tra Israele e Hamas, recensire questo libro di Carrère sembra quanto mai opportuno per riflettere su certe analogie tra il terrorismo che ha colpito la Francia nel 2015 e quello che oggi si è scatenato contro Israele.

A distanza di quasi un decennio da quanto riferito in V13, l’incapacità e la mancata volontà di trovare soluzioni politiche e pacifiche alla questione israelo-palestinese continuano ad alimentare il fanatismo religioso che si esprime solo attraverso atti terroristici.

Alla fine del libro Carrère mostra un’apertura alla speranza di un “mondo raddrizzato”. Se la storia pare non averci insegnato ancora niente, quanti Carrère ci vorranno per arrivare a scegliere la pace?

di Mirella Vitalini

Recensire quest’ultimo libro di Carrère, definito da lui stesso “cronaca giudiziaria” è ben diverso dall’analizzare un romanzo, cioè un testo che, per quanto realistico, consente aperture all’invenzione.

Il perché del titolo

Il titolo fa riferimento alla strage perpetrata da terroristi dell’ISIS V venerdì 13 novembre 2015 in vari luoghi di Parigi, e in particolare nella sala del Bataclan affollata per un concerto rock, dove sono rimaste uccise novanta persone. V13 è il resoconto giornalistico – si basa su articoli che Carrère inviava ogni fine settimana al periodico “OBS” – del processo tenutosi a Parigi dall’8 settembre 2021 per circa nove mesi.

La scelta di Carrère

All’inizio del libro Carrère sente il dovere di spiegare i motivi per cui non essendo né imputato né vittima e nemmeno un giornalista vero e proprio pur se accreditato dall’OBS ma solo uno scrittore, si sia autoinflitto la pena di chiudersi per tanti mesi in una scatola di tamburato bianco costruita appositamente per riuscire a contenere l’enorme numero di vittime indirette, di testimoni, di colpevoli, di giudici e avvocati coinvolti nel processo. Elencata una serie di motivi plausibili ma non sufficienti, Carrère rivela che fondamentalmente era interessato alle esperienze estreme di morte e di vita che sarebbero emerse nel corso del dibattimento e che sicuramente avrebbero cambiato qualcosa dentro tutti i presenti.

Le testimonianze e la ricostruzione della strage

Nel libro viene presentato non solo un coinvolgente resoconto dei fatti attraverso varie testimonianze da diversi punti di vista, ma anche la ricostruzione accurata della preparazione degli attentati e del ruolo che ciascuno dei membri del commando vi avrebbero dovuto svolgere. Ad onta di questa accuratezza, e della decisa volontà di spiegazione dello scrittore, molti aspetti restano inspiegati, probabilmente anche a causa di quella che Carrère definisce “epidemia del silenzio”, cioè la decisione di alcuni imputati di non rispondere all’interrogatorio. Tra i” vuoti” più notevoli risalta la mancata motivazione per cui il capo del commando, la star del processo, Salah Abdeslam, non si sia fatto esplodere come suo fratello. Sempre Salah Abdeslam circa il problema del diritto di parola delle vittime aveva provocatoriamente chiesto se sarebbe stata data la parola alle centinaia di civili che in Iraq e in Siria erano stati vittime dei bombardamenti “chirurgici” della coalizione. Secondo Carrère, al di là del giudizio politico, definire “presunti” questi massacri da parte delle autorità non giova né alla verità né alla giustizia.

La propaganda del califfato nell’analisi di Carrère

Tra le molte osservazioni che rendono interessante questo libro colpisce l’analisi fatta dall’autore della propaganda del califfato, basata su un video di 17 minuti in cui si vedono l’addestramento degli jihadisti e le decapitazioni fatte in diretta con compiacimento. Carrère osserva, citando i campi di sterminio e i gulag, come la propaganda generalmente tenda a mascherare o a nascondere l’orrore, mentre qui lo esibisce. Questa esaltazione del sadismo fa affidamento sull’autorizzazione a essere sadici per convertire all’Isis. Una distorsione etica e comunicativa. Invece, non diversamente dai racconti dello sterminio degli ebrei – in particolare nell’opera di Primo Levi -, nei sopravvissuti alle stragi di Parigi si fa strada un senso di colpa nei confronti delle vittime: perché è toccato a loro e non a me? La lunga serie di resoconti drammatici delle stragi nel corso del processo è sempre accompagnata dall’analisi delle reazioni successive all’orrore. A questo punto Carrère si stupisce per il diffondersi dello slogan “non avrete il mio odio” (dal titolo di un libro di A. Leiris). Non trova del tutto onesto tale buonismo, perché tende a occultare colpe e responsabilità nonché a mancare di approfondire l’insieme dei sentimenti provocati dalla strage.

Proprio la complessità delle reazioni psicologiche suscitate, prima dalle conseguenze degli attentati, poi dal difficile recupero di una vita “normale”, le storie strazianti di individui comuni hanno reso l’esperienza di questo processo troppo forte e addirittura – a detta di Carrère che pure l’ha narrata – incomunicabile.

La testimonianza di Nadia

Tra le tante testimonianze riferite dall’autore ha particolare rilievo quella di Nadia, nativa del Cairo, ancora luogo in cui vive metà della sua famiglia. Durante il processo Carrère è andato spesso a trovarla nel suo appartamento in boulevard Voltaire, a pochi passi dal locale “La Belle équipe”, dove era rimasta uccisa la figlia Lamia insieme al fidanzato. Gli interventi di questa testimone risultano particolarmente toccanti, a partire dalla sua ostinazione a non credere la figlia morta, allo scambio di persona avvenuto alla Morgue. Qui Nadia aveva riconosciuto in un cadavere quello di Lamia e solo l’intervento degli amici di quest’ultima aveva permesso il giusto riconoscimento dovuto a un tatuaggio.

La speranza di un “raddrizzarsi del mondo”

Nel resoconto dell’ultima parte del libro dedicata alla sentenza e alle conseguenti reazioni, Carrère sottolinea come, nei nove mesi trascorsi quotidianamente insieme, si siano create delle profonde amicizie tra tutti i presenti al processo e lui stesso. La sera della sentenza li vede riuniti nell’ormai solito bistrot dove hanno passato i giorni del V13 ed è il momento in cui Carrére riflette sul fatto che tutto ciò che sino ad allora li aveva uniti e fatti sentire vicini un giorno dietro l’altro si avvia a una conclusione. Tutti sono assaliti da un senso di vuoto in quella che però l’autore stesso definirà come una delle “sere più straordinarie della sua vita”. Anche noi lettori ne siamo partecipi leggendo V13, un libro, che nonostante la struttura cronachistica, cattura sia i lettori interessati al problema della giustizia sia tutti quelli che amano storie vere: ce ne sono tante e molte davvero singolari.

Alla storia di Nadia è dedicata l’ultima pagina del libro, ambientata al Cairo nel 2018, quindi a processo da tempo ultimato. Al Cairo Nadia era stata l’ultima volta quattro anni prima, insieme a Lamia. Nello stesso luogo dove avevano guardato insieme il tramonto, Nadia racconta in arabo a un poliziotto gli attentati e il processo. La solidarietà di quest’uomo, per cui i veri martiri della vicenda non erano i terroristi, che si attribuivano quel titolo, ma le vittime, è per Carrère un “raddrizzarsi del mondo”.

Il libro finisce così con una nota positiva, dopo aver accompagnato il lettore in un cammino drammaticamente coinvolgente di colpa, di giustizia e di umana pietà. Assolutamente da leggere.

Post Author: Valeria Cudini

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