Mille cose che brillano

Oggi la nostra collaboratrice Giusi D’Urso racconta di sé e di una malattia comune a molte donne: il tumore al seno.

Con questo breve testo ci accompagna nelle strade percorse dal dubbio alla certezza disarmante, attraverso le ansie e le paure che ogni donna vive quando scopre di avere questa malattia.

Un inno alla vita, questo suo testo, e alla (ri)scoperta di tutte le piccole e grandi cose che ci sono sempre state ma che, con gli occhi nuovi di chi si sente restituito alla vita, possono brillare e illuminare ciò che ci circonda

Di Giusi D’Urso

Da poco più di un mese ogni mattina al risveglio mi passo una mano sul seno destro. È il mio ultimo campo di battaglia, tangibile, di carne e pelle. Ce ne sono stati altri, negli anni, che non si vedono e che non posso toccare.

Sono stata operata a dicembre, ma la battaglia è cominciata mesi prima, sotto il sensore ecografico della mia senologa che a un tratto smette di conversare e si avvicina al monitor con l’aria compunta. Qualcosa non la convince, dice che vuole rifarmi l’ecografia con un altro apparecchio. Ci spostiamo in un’altra stanza, mi stendo su un altro lettino, sotto un altro sensore. Lei seria, continua a studiarmi, l’anno scorso andava tutto bene, l’addensamento non c’era. Io non chiedo niente, io so già. Lo so per mia madre, per le donne che vedo nel mio studio e mi raccontano, per le statistiche che sono oracoli, perché ho l’età in cui accadono queste cose a tante di noi. Non dico niente, attendo che lei si decida a dare un responso, il via a una fatica che è già iniziata da quando ha smorzato la sua consueta cordialità e ha assunto quel piglio pensieroso.

La parola composta ago-aspirato abrade una qualche superficie dentro di me e mi rammenta altre sottrazioni. La battaglia è cominciata.

Sulla strada verso casa ho voglia di piangere e mi ripeto lo sapevi che prima o poi sarebbe capitato. Mia madre aveva sessant’anni, io cinquantatré. Sei sempre avanti mi dico sorridendo e tirando su col naso.

Nella sala d’attesa della senologia di Pisa siamo tutte nomi di piante che fioriscono. Ho in mano una tessera con il logo del reparto e l’iris, la pianta che ascolterà la diagnosi. Nelle visite successive sarò ranuncolo, magnolia, gardenia. La chirurga mi legge con voce dolce e rassicurante la diagnosi. Penso che poteva andare molto peggio, lei mi legge dentro e rafforza questo pensiero con parole da sorella maggiore. C’è l’intervento. Ci sono le terapie. Sarà una cosa tranquilla. E io penso all’ossimoro battaglia-tranquilla. Infatti da lì in poi perdo il sonno di molte notti e mi giustifico dicendo a me stessa che un tumore vale bene qualche notte in bianco.

Nella stanza d’ospedale dopo l’intervento che chiamano conservativo, una donna più giovane di me, operata il giorno prima, mi sorride e mi dice ce l’abbiamo fatta. C’è sempre qualcuno che corre più veloce.

Il giorno dopo sono a casa, il seno destro fasciato stretto fino all’ascella. Hanno tolto due linfonodi sentinella e per un attimo mi sento indifesa, poi mi torna in mente l’aggettivo conservativo e la frase con cui la mia compagna di stanza mi ha salutata sulla porta del reparto: viva la prevenzione, teniamoci in contatto.

In attesa del referto definitivo trascorro gli ultimi giorni dell’anno pensando al piccolo pezzo di me che mi ha tradita, che meritava l’estirpazione, il soffocamento sotto una colata di paraffina, il taglio sotto lame taglienti, il disvelamento della sua cattiveria sotto il microscopio. Gli amici mi vorrebbero vicina, io li eludo, creo distanze di sicurezza contro un’eventuale esplosione, con le mie schegge non voglio fare del male a nessuno. Sono scossa a tratti, fra un regalo e un silenzio, dalla paura di risultati funesti.

Il referto arriva l’ultimo giorno dell’anno e mi regala ossigeno, giorni pacati e il coraggio di procedere. Si guarisce, c’è una strada segnata, collaudata, sicura. In senologia, dove ora sono gardenia, sorridono controllando la cicatrice ancora un po’ arrossata, mi dicono che piano piano si normalizzerà, che presto non ci farò più caso ed è una bugia bianca.

Siamo a gennaio, anche stamani appena sveglia, mano sul seno destro, la cicatrice è appena rilevata, non ho ancora riacquistato la sensibilità. I pensieri si addolciscono intorno all’idea che il nodulo non c’è più, che è stato scortato fuori da due guardie sane e fedeli. I punti interni si sono assorbiti, la crema idratante ogni giorno ammorbidisce la superficie di contatto fra me e la paura che resta, intatta, conservata. Tornano a tratti, durante il giorno, i ricordi legati all’allattamento e fanno un gran male con la loro infinita tenerezza.

In compenso sono arrivate molte altre cose. La gioia nuova per ciò che posso continuare a fare. La forza alimentata da una paura che non mi lascerà mai più. Il pensiero costante che mi lega alle donne iris, gardenia, magnolia, al giardino di noi tutte, tradite da una parte del corpo destinata al dono. Il pensiero delle loro paure e del loro coraggio. La gratitudine per chi se ne prende cura. L’amore che mi commuove, l’incanto di certe mattine piene di promesse. Il fatto tangibile di essere, vivere, toccare screpolature senza piangere, trovare traccia di questa battaglia, rigenerare ogni giorno la speranza su questa parte del mio corpo. Di essere, continuare a essere. Di stare qui con le persone che amo, nelle stanze calde della nostra casa, sul balcone a bere un caffè e guardare i vasi di prezzemolo, nel mio studio a fare il lavoro che ho scelto, nel mio angolo preferito a leggere le parole degli altri.

E mille altre cose che c’erano anche prima ma che adesso brillano.

Post Author: Valeria Cudini

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